Coprogettazione: parliamo di soldi. Uno dei nodi per far decollare l’amministrazione condivisa

Il Terzo settore si sta appassionando all'amministrazione condivisa. Ma sente il rischio che essa porti con sé un'insidia: dovere ulteriormente diminuire, sotto i limiti della sostenibilità, le risorse disponibili. È quindi urgente provare a fare ordine sui temi del "contributo" e del "cofinanziamento"

Articolo pubblicato su Impresa sociale

Parliamo di soldi. E del motivo per cui una parte del Terzo settore, soprattutto cooperativo, è diffidente verso l’amministrazione condivisa. Il tema è figlio dell’incipit, troppo spesso ripetuto senza consapevolezza delle conseguenze, per cui il più ampio ruolo del Terzo settore nei settori di interesse generale deriverebbe dal fatto che “non ci sono più soldi”. Non, quindi, come sarebbe corretto, da una concezione sussidiaria della società, dalla volontà di riconoscere e valorizzare i soggetti, tutti i soggetti, che perseguono il bene comune: ma dalla mancanza di soldi. E, per quanto chi affermi ciò spesso intenda lusingare il Terzo settore, evidenziarne l’indispensabilità nel welfare e nella società di oggi, ottiene l’effetto opposto.

“Ecco, c’era la fregatura”, pensa il Terzo settore, “mi corteggiano per coinvolgermi, in realtà è un modo per scaricare su di me i guai altrui”. E allora una serie di termini assumono un suono allarmante: il “contributo” invece che il pagamento della fattura, fa pensare al Terzo settore che incasserà meno di quanto speso e che la differenza non si sa proprio come trovarla (e, a ben vedere, per quale motivo ci si dovrebbe affannare a cercarla); il “cofinanziamento”, che diventa una sorta di tangente: per lavorare devo (quantomeno far risultare di) metterci dei soldi: ma perché mai!?

Se non si guardano in faccia questi aspetti, non si riuscirà a superare questa strisciante diffidenza. Ma superarla è possibile, perché gran parte delle affermazioni (e delle conseguenze) sopra richiamate sono frutto di falsi presupposti e fraintendimenti; che però vanno ben identificati, affrontati e smentiti nella pratica affinché smettano di esistere.

Andiamo con ordine. Dell’incipit abbiamo detto: è falso che ci si orienti verso l’amministrazione condivisa per mancanza di risorse pubbliche. Nella teoria, perché il motore dell’amministrazione condivisa è invece una diversa concezione della società e del conseguente ruolo delle istituzioni e delle formazioni sociali; nella pratica, perché l’esperienza ci dice che le migliori esperienze di amministrazione condivisa hanno come coprotagonisti enti pubblici assolutamente coinvolti e responsabili. Detto questo, a scanso di equivoci, soprattutto laddove un’esperienza di amministrazione condivisa erediti e riorganizzi una situazione in cui la pubblica amministrazione esternalizzava, il fatto di non ridurre le risorse è un punto di partenza per non dare spazio ad una narrazione che associ pericolosamente amministrazione condivisa e caduta dei diritti. Le istituzioni non devono disinvestire, i vantaggi, anche economici dell’amministrazione condivisa sono altri.

Ciò detto, veniamo al fatto che le risorse pubbliche sono destinate al Terzo settore attraverso “contributo”; pur essendovi anche opinioni discordanti, il dm 72 del 31/3/2021 (pag. 10) qualifica i flussi di risorse come contributo art. 12 della legge 241/1990 e quindi, come risulta dalla circolare 34/e del 21/11/2013 dell’Agenzia dell’entrate  e dall’interpello 375/2021 all’Agenzia delle Entrate appare probabile che generalmente si tratti appunto di “contributi”. Ma questo, cosa comporta esattamente?

Certamente che all’origine vi sono costi rendicontati (anche se non necessariamente con le procedure sproporzionate di taluni fondi comunitari), ma questo implica anche che, fatte 100 le spese sostenute e rendicontate, ne potranno essere trasferite solo una frazione, ad esempio 80, essendo le restanti 20 da sostenere a carico dell’ente di Terzo settore a titolo di “cofinanziamento”? Significa (anche o inoltre) che potranno essere riconosciute solo determinate categorie di spese, ad esempio quelle del personale direttamente impiegato in un certo intervento e non altre, ad esempio spese di struttura o di investimento? È evidente che entrambe queste due circostanze possono generare diffidenze da parte del Terzo settore, soprattutto quello con forma imprenditoriale: da dove potrebbero mai venire le risorse del cofinanziamento così intese? Come coprire le spese generali?

Pur nella consapevolezza della complessità di tali questioni, si ritiene sussistano convincenti motivazioni per ritenere che entrambe le problematicità sopra espresse non derivino da prescrizioni normative ma da possibili scelte autonome (e discutibili) delle amministrazioni pubbliche; e che quindi sia sufficiente che l’ente pubblico non le adotti. Il fatto che il contributo 1) non copra tutti i costi e che 2) possa coprire solo alcune voci non pare infatti essere una necessità: si pensi infatti, solo per fare un esempio, ad una fattispecie di contributi sottoposta a controlli particolarmente ossessivi (e certamente da non prendere a modello!) come quelli erogati relativamente ai progetti finanziati sul Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione (Fami) che comprendano generalmente la copertura di spese generali (addirittura forfettizzate) e talvolta coprono interamente le spese sostenute: insomma, non vi è alcun automatismo che comporta l’imposizione di un cofinanziamento, si tratta eventualmente di una scelta dell’amministrazione procedente, su cui poi ci si interrogherà ulteriormente.

Che significato ha, allora, attribuire le risorse sotto forma di contributo e non di corrispettivo? Il significato è rintracciabile nella natura del flusso economico, che non si forma come prezzo di mercato autogiustificandosi nell’incontro tra domanda e offerta. Quando noi acquistiamo un certo bene – un cellulare oppure della frutta – non ci viene in mente di chiedere come il prezzo si sia formato: quanto il produttore ha speso in manodopera e materiali, quanto è il margine del rivenditore, ecc.: se lo compriamo è perché riteniamo che le caratteristiche del bene siano tali da valere la cifra richiesta, e questo è tutto. L’eccezione che conferma la regola è la possibilità della pubblica amministrazione di chiedere giustificazione circa un’offerta anomala: la formazione del prezzo interessa appunto laddove vi siano motivi per sospettare una pratica di concorrenza sleale, quindi una presunta patologia, nella normalità il prezzo mercato si autogiustifica. Nell’amministrazione condivisa si è al contrario in una situazione simile a quella di una famiglia, dove le risorse sono allocate (non contrattate) sulla base di quanto è necessario per una molteplicità di scopi quali la spesa, l’affitto, le bollette, lo studio dei figli, ecc.; chi prende in carico il pagamento delle bollette non “contratta” i soldi necessari, ma ne riceve in misura tale da assolvere il compito concordato. In tale allocazione vi può essere la scelta di coprire le spese solo parzialmente (dare al figlio universitario i soldi per gli studi, ma chiedendo che esso stesso si impegni lavorando a cercare risorse aggiuntive) ma si tratta di un’evenienza specifica e non di una regola generale. Il prezzo frutto dell’equilibrio tra domanda e offerta è tipico di un contesto di mercato in cui i protagonisti della transazione sono controparti, l’allocazione di risorse sulla base di quanto a ciascuno necessita per realizzare la frazione di sua competenza è invece coerente con il diverso assetto che si genera quando i protagonisti sono alleati che agiscono per una finalità condivisa.

Ciò detto, rimane però da evidenziare una circostanza decisiva che qualifica l’amministrazione condivisa: diversamente da quanto avviene negli affidamenti, nelle migliori esperienze di coprogettazione, le risorse effettive risultano sensibilmente superiori a quelle conferite dalla pubblica amministrazione; questo grazie alla corresponsabilità tra i partner, concetto assai diverso dal cosiddetto “cofinanziamento”, che rappresenta invece una pratica il più delle volte inconsistente e deprecabile. È del tutto chiaro che se si chiede ad una impresa sociale di “cofinanziare” ci si aspetta da questa un comportamento immotivato e incomprensibile: perché mai dovrebbe conferire risorse? Da dove dovrebbero essere estratte? Da una commessa di mercato con altro ente o da sovraprofitti derivanti dalle vendite a cittadini? E dove starebbe il beneficio sociale, nel momento in cui una comunità beneficiasse della sovra-estrazione di risorse in una comunità vicina, nel caso – esemplifichiamo – i servizi per l’infanzia nel territorio X fossero finanziati da extra-margini realizzati a spese di cittadini e pubbliche amministrazioni nella gestione di servizi per l’infanzia nel territorio Y? Questa impresa sociale, richiesta di esplicitare il cofinanziamento in una certa quota, innanzi alla probatio diabolica di cui sopra, non potrà che agire in modo simulato, accampando ad esempio un qualche costo generale a dimostrazione del cofinanziamento; l’ente pubblico accetterà di malavoglia la finta giustificazione, l’impresa sociale guarderà con sospetto l’amministrazione condivisa perché oltre ad essere ai limiti della sostenibilità richiede faticose finzioni che comportano un notevole lavoro amministrativo a fronte del nulla: le risorse, di fatto, sono sempre le stesse, il “cofinanziamento” ha per il progetto da realizzare un valore reale non superiore ai proventi del riciclo della carta dei giustificativi utilizzati.

La conseguenza è chiara. L’idea di cofinanziamento, così intesa, va abbandonata (e, come si vedrà, sostituita da quella più di corresponsabilità). E va dato atto che un’impresa sociale necessita – in ogni territorio in cui operi, compresi quelli in cui interviene nell’ambito di coprogettazioni percependo contributi – di retribuire gli operatori e di allocare risorse per tutte quelle voci – organizzazione, formazione, qualità, investimenti, ecc. – che rendono pregevole la sua azione; certo non potrà pretendere di accantonare dall’allocazione predetta una cifra esorbitante rispetto alle spese sostenute complessivamente intese, ma dovrà essere in grado di sostenere tramite il contributo le normali funzioni di impresa senza le quali non sarebbe possibile nemmeno realizzare le azioni progettuali previste né continuare ad essere, rafforzandosi nel tempo, una risorsa per il proprio territorio.

Ma allora, come possiamo affermare che invece nella realtà delle esperienze di amministrazione condivisa (o almeno nelle migliori di essere) le risorse effettive sono invece nella realtà assai superiori a quelle inizialmente conferite dall’ente pubblico?

Il segreto è semplice quanto banale e deriva dalla combinazione della corresponsabilizzazione con il rispetto della vocazione di ciascun partner. La corresponsabilizzazione è la conseguenza dell’essere, da parte del Terzo settore, “dalla stessa parte del tavolo” della pubblica amministrazione, ugualmente coinvolto nella volontà di realizzare un progetto comune. Se per il progetto che si è condiviso mancano risorse, è un problema di tutti cercarle, ciascuno mobilitando le proprie capacità.

Una fondazione di comunità parte del tavolo di lavoro potrà conferire risorse economiche. Un’Organizzazione di Volontariato metterà a disposizione l’impegno gratuito dei propri volontari; o, dove non fosse sufficiente, potrà avviare tra i cittadini iniziative di reclutamento legate al progetto. Diversi enti del Terzo settore potranno assicurare beni strumentali e immobili che non siano al momento utilizzati appieno. Insomma, ciascuno può contribuire secondo la propria specifica natura.

E un’impresa sociale? A cui non ha senso chiedere denaro e che può avere volontari, ma in misura minore rispetto a volontariato e associazionismo?

Ad un’impresa sociale va chiesto di contribuire secondo la propria natura. In primo luogo, facendo l’impresa: e quindi se il progetto (ad esempio un intervento in un parco pubblico o un immobile riqualificato) prevede la possibilità di svolgere attività di impresa, da queste, oltre ai proventi necessari per la sostenibilità, possono derivare risorse per il progetto comune. E poi mettendo la propria struttura organizzativa alla ricerca di risorse da fonti diverse: bandi di enti filantropici, bandi regionali o comunitari, ecc. Il tutto, si intende, rimanendo fedeli al fatto che in quella sede si sta lavorando non per la propria organizzazione, ma per uno scopo condiviso e secondo linee di azione collettive.

Guardiamo alle esperienze: di fatto i casi in cui vi è una quota consistente di risorse ulteriori a quelle inizialmente destinate dall’amministrazione procedente queste vengono da due fonti: la valorizzazione del lavoro volontario che raggruppamenti compositi di Terzo settore realizzano principalmente grazie all’operato di associazioni di promozione sociale (Aps) e organizzazione di volontariato (Odv) e risorse procurate nell’ambito del partenariato attraverso ulteriori progettazioni a valere su bandi di enti filantropici o su risorse comunitarie, o iniziative imprenditoriali generalmente grazie all’impulso di imprese sociali. La prima componente è talvolta più difficile da valorizzare economicamente, anche se vi sono casi (es. Liguria) in cui esistono prassi consolidate sul come farlo, la seconda componente può essere decisiva, mutando in modo significativo il quadro delle risorse a disposizione e talvolta moltiplicandole. Ovviamente è auspicabile che la costruzione di una partnership “strategica” di questo tipo, in cui enti pubblici ed enti del Terzo settore (Ets), a partire da un progetto condiviso cementano un’alleanza che li porta a reperire insieme risorse nel corso del tempo sia accompagnata da una solida azione amministrativa, che renda questi passaggi insieme trasparenti e “automatici”, avendo alle spalle un procedimento di evidenza pubblica che esime dal dover avviare faticosi processi amministrativi ogniqualvolta si presentino opportunità di finanziamento (magari da cogliere in tempi limitati) per interventi parte di un progetto condiviso.

Quindi, riassumendo: l’amministrazione condivisa richiede di mettere mano al tema delle risorse, per evitare che il Terzo settore, pur apprezzando il riconoscimento di ruolo che essa implica, attivi delle resistenze più o meno esplicite basate sui timori di non sostenibilità. Ciò richiede, per il bene di tutti – del Terzo settore, della pubblica amministrazione e delle comunità – di abbandonare la strada dei cofinanziamenti di carta, utili a tranquillizzare le burocrazie ma inconsistenti nella realtà, di non chiedere cose irrealistiche o incoerenti con la vocazione di ciascun Ets, ma al tempo stesso di valorizzare gli aspetti di corresponsabilizzazione che hanno già dimostrato di essere in grado di moltiplicare oltre le attese le risorse pubbliche.

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